Dissociazione e GAP, sintomi neurologicamente correlati o differenziati

Per capire i meccanismi del gioco d'azzardo patologico bisogna prima capire la motivazione principale per cui noi eseguiamo gran parte dei nostri comportamenti, ovverosia il piacere.
Il piacere è un elemento fondamentale nel comportamento dei mammiferi poiché incita all'azione e costituisce la motivazione finale del comportamento, se viene a mancare compromette il comportamento motivazionale e quindi contribuisce all'efficienza.

Avendo questa utilità si può facilmente comprendere che è frutto della selezione naturale e quindi ha un ruolo nel favorire la sopravvivenza e l'adattamento all'ambiente. Per distinguere il comportamento motivato dal piacere provato al raggiungimento del "fine" del comportamento, si può distinguere tra piacere appetitivo, ov- verosia quello che fa ricercare lo stimolo e piacere consumatorio che si ha quando il fine è raggiunto.
Il piacere in queste due fasi è diverso. Nella fase appetitiva il piacere è uno stato di euforia ed eccitazione che rinforza e sostiene il comportamento di ricerca e di approccio all'oggetto, al "fine" ("edonia di stato" DiChiara 2005), ovvero uno stato emotivo o affettivo che fa parte dell'eccitazione comportamentale (incentive arousal). La caratteristica della fase appetitiva è un comportamento guidato dagli stimoli distali non direttamente collegati all'interazione con oggetti, acquisito spesso mediante le pulsioni primordiali. Queste aree sono tutte innervate da neuroni che utilizzano la dopamina come neurotrasmettitore.
La dopamina viene liberata nello shell del nucleo accumbens da stimoli nuovi e salienti ma va incontro all'abituazione dopo una singola esposizione. Le sostanze da dipendenza aumentano in di- versi modi la trasmissione dopaminergica nello shell, provocando piacere e agendo da rinforzo per il comportamento strumentale. Tale piacere è del tipo appetitivo che produce stati di eccitazione comportamentali pari a quelli della fase appetitiva del comportamento motivato, producendo quindi quindi il comportamento di esplorazione e ricerca con modalità comportamentali specie- specifiche. La dopamina ha anche un ruolo di facilitazione dell'apprendimento associativo verso nuovi stimoli, facilitando l'associazione pavloviana tra stimoli neutri e stimoli consumatori. Il cervello fa così in modo di trasformare una contingenza tempo- rale in una relazione causale tra piacere e evento: la dopamina consolida queste associazioni, in modo che le nuove esperienze non le cancellano e questo crea il rischio di cadere nei disturbi del piacere.
Neurobiologia delle dipendenze
Le caratteristiche biologiche notate nei dipendenti da sostanze sono riscontrabili anche negli individui che presentano una new- addiction. L'attivazione dei circuiti della gratificazione è infatti simile in entrambe le patologie.
Goodman (2008) ipotizza che le dipendenze comportamentali siano sottese da un comune "processo additivo" derivante dall'alterazione di 3 sistemi funzionali: quello della motivazione - gratificazione che, alterato nel malato, produce sensazioni piacevoli per cui le condotte che lo attivano risultano marcatamente
rinforzanti, la regolazione degli affetti, che comporta l'evitamento di emozioni dolorose intollerabili che non si riescono a gestire e, infine, i meccanismi dell'inibizione comportamentale per cui il soggetto ha urgenza di mettere in atto il comportamento gratificante o di evitare un'emozione dolorosa, senza tenere conto delle conseguenze a lungo termine derivanti dal comportamento.
Tra le aree cerebrali coinvolte nello sviluppo e nel mantenimento della dipendenza, sembrano essere maggiormente implicate la cor- teccia prefrontale, l'amigdala, l'ippocampo e il nucleo accumbens (Nova, 2004). In particolare i recettori dopaminergici D2 risultano essere presenti in concentrazione minore nei dipendenti da sostanze così come risulta ridotto il rilascio di dopamina. Qualcuno ipotizza che i soggetti dipendenti presentino a causa di questi deficit una minore sensibilità a stimoli rinforzanti naturali. Anche l'ipersensibilità dei recettori dopaminergici D1 a livello del nucleo accumbens contribuirebbe a un incremento della dopamina a livello sinaptico con un conseguente aumento degli effetti del rinforzo prodotti dall'assunzione della cocaina e dunque un potenziamento del processo additivo. Una ridotta sensibilità dei recettori D3 sembre- rebbe inoltre facilitare il processo additivo.
Se l'assunzione acuta delle sostanze provoca un incremento della trasmissione dopaminergica, il consumo cronico ne determinerebbe una ridotta funzionalità il che provoca una disfunzione nella corteccia orbito-frontale e del giro cingolato (Volkow et. al. 2004), aree implicate nell'attribuzione della salienza agli stimoli e nel controllo inibitorio sui comportamenti disfunzionali. Nei soggetti dipendenti, tali aree sono ipoattive durante le fasi di astinenze e si attivano quando il soggetto assume la sostanza. L'attivazione aumentata di queste aree è stata osservata anche in condizioni caratterizzate da comportamenti compulsivi come il disturbo ossessivo-compulsivo e potrebbe quindi essere alla base dell'incapacità di esercitare un controllo sull'assunzione della sostanza e sulla loro ricerca compulsiva.
Altri neurotrasmettitori coinvolti nella dipendenza sono la serotonina, il cui sistema può indurre, se alterato, una maggiore impulsività, la noradrenalina, il cui sistema modula il sistema dopaminergico, gli oppioidi endogeni, il cui rilascio è stimolato da gioco d'azzardo, attività sessuale e condotte alimentari compulsive.
Dissociazione
Il termine dissociazione, coniato da Pierre Janet (1889, 1907, 1920), indica "la mancanza di integrazione normale dei pensieri, sentimenti e esperienze nell'avanzamento di coscienza e memoria" (Bernstein e Putnam 1986, p.727), e coinvolge aberranti percezioni dell'ambiente, come spaccature e alterazioni della memoria, della coscienza e dell'identità. I disturbi dissociativi possono essere "improvvisi o graduali, transienti o cronici" (DSM-IV, 1994, p. 477).
Le esperienze dissociative, secondo Benstein e Putnam (1986) e Seinberg (1991) sarebbero da concettualizzare come esistenti su un continuum che varia da fenomeni "comuni" come perdere la conce- zione del tempo a esperienze più patologiche come la perdita dell'identità. Accettando questo punto di vista, soltanto la differenza quantitativa della frequenza, del grado e/o dell'intensità dei sinto- mi dissociativi o dello stress che la accompagna permette di dia- gnosticarlo come disordine associativo (es. Kihlstrom, Gilsku e Angiulo 1994), quindi anche fenomeni dissociativi considerati più "seri", come la depersonalizzazione, possono essere visti come un'esperienza normale che a certi livelli può essere considerata patologica (Steinberg, 1991). Altri autori, invece, distinguono due tipi concettualmente e statisticamente differenti di dissociazione, di cui uno consiste in esperienze "non patologiche" come l'assorbimento psicologico, e l'altra che coinvolge esperienze patologiche come la depersonalizzazione e la de realizzazione (Steinberg 1995).
La dissociazione si potrebbe pensare come un meccanismo di difesa incassato, utilizzato per bloccare la consapevolezza di espe- rienze traumatiche che non si riescono ad affrontare o per fuggire da situazioni in cui la fuga fisica risulta impossibile (Kihlstrom, 2005), proteggendo l'individuo da emozioni ed eccitazione estremi, causati da un evento traumatico o da memorie, svolgendo così una funzione adattiva.
La dissociazione è però ancora ritenuta patologica nella prospetti- va psichiatrica perché potrebbe interferire con i processi cogniti- vi, percettivi e attentivi ordinari con il rischio che compartimentalizzi, disgreghi o disorganizzi la memoria. Il carattere non normativo delle esperienze dissociative potrebbe portare a disfunzioni come l'incapacità di adattare il comportamento ai bisogni e alle aspettative della società.
Per riconciliare la concezione adattiva e quella patologica si po- trebbero utilizzare tre tipi di spiegazione: una è il posizionamento delle esperienze dissociative su un continuum a seconda dell'intensità e del tipo, la seconda è che le esperienze dissociative siano da considerarsi mal adattive solo se esperite spontaneamen- te e continuativamente al di fuori di un contesto di stress severo o in presenza di stressor minori, la terza prevede che la dissociazione protegga l'individuo dalla consapevolezza cosciente del trauma e del suo seguito ma che, in ogni caso, esso lasci un'"impronta" nel cervello in forma di memoria non dichiarativa (Van der Kolke, Ka- dish 1987) e quindi la dissociazione sarebbe un meccanismo di difesa imperfetto che non proteggerebbe l'individuo completamen- te dagli effetti del trauma con il doloroso residuo egli dovrà eventualmente scontrarsi (Van der Kolke, Kadish 1989).
La dissociazione che avviene durante un evento traumatico viene denominata "dissociazione peritraumatica" (Ozer 2003). Anche se può sembrare adattiva ci sono prove che questa esperienza sia collegata al successivo sviluppo di sintomi del disordine da stress post-traumatico o PTSD (Koopman et al. 2004).
La misurazione degli stati dissociativi è problematica perché è possibile averne una misura indicativa della severità solo utilizzan- do misure di self-report che, a causa della loro soggettività sono sottoposte a tutti i problemi di misurazione connessi. La Dissociative Experience Scale (DES) è stata criticata da alcuni autori secondo i quali i due terzi degli item possono essere spiegati in termini
di controllo cognitivo e quindi alcuni fatti relativamente comuni come la distrazione o l'essere proni alla fantasia predirebbero altri risul- tati in questa scala (Rauschenberge Lynn, 1995).
Neurobiologia della dissociazione
Le particolari contingenze in cui si verificano i fenomeni dissociativi li rendono difficili da indagare ma ci sono comunque dei dati di interesse. E' stata verificata una relazione tra la dissociazione associata al trauma e la soppressione dell'arousal fisiologico (es. Griffin et al. 1997), in contrasto con l'associazione posta tra stress post- traumatico e iperarousal (DSM-IV). Diversi studi sulla depersonalizzazione (Baker et al. 2003; Medford et al. 2005; Simeone et al. 200, 2004), hanno supportato il modello "cortico-limbico" (Sierra e Ber- rias 1998) nel quale l'attività inibitoria della corteccia prefrontale sconvolge "l'etichettatura emozionale" del materiale percettivo e cognitivo dell'amigdala e delle strutture relazionate. Lo sconvolgimento risulta nella soppressione dell'arousal autonomico e in un senso di disconnessione dalla realtà. Il modello cortico-limbico si riferiva specificatamente alla depersonalizzazione ma studi più ampi sui sintomi dissociativi hanno scovato prove in supporto di un modello di dissociazione che coinvolge un'inibizione limbica da parte della corteccia prefrontale. Anche molti studi recenti di conversione isterica, ossia sintomi di conversione che coinvolgono la perdita di funzioni sensoriali o motorie dovute a processi psicologici sono stati interpretati come esempi di dissociazione somatoforme. Studi di neuro immagine su soggetti sottoposti a paralisi indotta da ipnosi hanno mostrato come l'informazione somato-sensoriale continui ad essere processata a livelli più bassi ma che l'inibizione di strutture parietali e prefrontali disturbi il collegamento tra i meccanismi che generano l'intento per il movimento e quelli responsabili per l'esecuzione (Athwal et al. 2000).
Studi sul Dissociative Identity Disorder (DID) e su severe patologie dissociative tendono a focalizzarsi su substrati di sintomi in relazio- ne alla memoria e all'amnesia dissociativa, in particolare sul volume dell'ippocampo e dell'amigdala (Vermetten et al. 2006); Tsai et al 1999). Sono state anche osservate delle differenze nell'attivazione delle regioni medio temporali e dell'ippocampo, entrambe associate con la memoria esplicita e l'inibizione del sistema nigrostriatale. Da questo studio, inficiato comunque dal limite di essere stato condotto su un solo soggetto, si può supporre che nel DID e nell'amnesia dis- sociativa non ci sia la spaccatura della codifica della memoria, già notata in situazioni di stress acuto, bensì qualche forma di divisione in compartimenti della memoria durante la fase di codifica. Dissociazione e gioco d'azzardo patologico
"Addiction" viene dalla parola latina addicene che significa "essere schiavo di" o "in schiavitù". Le dipendenze potrebbero servire a rimuoversi dai veri sentimenti e fornire una sorta di fuga per evitare le ansietà della vita e disinnestarsi dalla realtà.
Nel caso generale delle dipendenze, e più in particolare del gioco d'azzardo, molti pazienti riportano di "non sentirsi se stessi" e di sentirsi guidati da fattori oltre il loro controllo (Carri, Darby, Shire e Oster 1999) Jacobs (1988) suggerì che i dipendenti utilizzassero la dipendenza come una forma di auto-trattamento per sfuggire da sentimenti di infelicità o di stress cronico e che i dipendenti provassero una serie di esperienze simil-dissociative che li differenziava dai non- dipendenti e sottopose la sua teoria a verifica sviluppando delle domande per verificare i sentimenti di dissociazione. I risultati positivi che ottenne vennero confermati in diverse ricerche successive (Kaley & Jacobs, 1988; Brown, 1996). Sempre Jacobs, nel 2000, rilevò l'accrescimento d'uso progressivo di 5 differenti reazioni dissociative esperite come direttamente correlate all'effetto crescente di problemi auto-riportati con il gioco: perdere la cognizione del tempo, sentirsi una persona differente, vedersi dall'esterno, sentirsi come in uno stato di trance, avere un vuoto di memoria. Queste reazioni dissociative sono state rilevate come presenti in giocatori patologici, dipendenti da cibo e alcolisti. Queste scoperte supportano fortemente una posizione centrale teoretica per cui, quando si abbandonano all'attività, le persone dipendenti tendono ad avere in comune un insieme di reazioni dissociative che li separa dai non-dipendenti. In consistenza con la teoria generale delle addiction, questo insieme di reazioni simil- dissociative costituiscono lo stato alterato di coscienza comunemente esperito che per Jacobs è il fine ultimo di tutti i comportamenti additivi.
Nella prospettiva di Jacobs la dissociazione può essere definita come "una normale abilità innata, utilizzata da tutti contro le distrazioni della vita quotidiana". La dissociazione sarebbe utilizzata in generale anche come difesa, quando alti stati di stress psicologico, di dolore fisico, un senso di impotenza causato da un incidente traumatico o continue condizioni avversive sorpassano le risorse che una persona ha a disposizione per il coping dello stress da esse causato "[...] Quindi la dissociazione è utilizzata è utilizzata come un metodo di problem solving" (Jacobs, 1998, p. 4). Per Ja- cobs la presenza di due sistemi interrelati di fattori coesistenti di predisposizione determina chi è a rischio di mantenere un modello additivo di comportamento in un ambiente che facilita il contatto con l'oggetto della dipendenza: lo stato cronico, atipico, persistente, spiacevole, unipolare di riposo fisiologico che è o eccessivamente depresso (basso arousal) o eccitato (iper arousal) e uno stato psicologico segnato da profondi sentimenti di inadeguatezza e inferiorità, dal senso di non essere voluto o non necessario e/o rigettato dai genitori, dai pari o da altri significativi. Questo stato risulterebbe da esperienze infantili o pre-adolescenziali e risulte- rebbe in un bisogno intenso di successo, riconoscimento o approvazione. Per misurare la dissociazione nel gioco si tende a usare la scala delle esperienze dissociative (Bernstein e Putnam, 1986) per la verifica delle tendenze dissociative in generale nella vita di tutti i giorni e il questionario di Jacobs (1988) per verificare il livello di dissociazione esperito durante attività potenzialmente additive.
La teoria di Jacobs che differenzia dipendenti e non-dipendenti sulla base dell'insorgere di fenomeni dissociativi o semi- dissociativi prevede un meccanismo alla base delle esperienze dissociative costituito da tre componenti: uno sfocato test della realtà causato dalla concentrazione completa dell'attenzione su una serie di specifici eventi del momento, la riduzione della critica a se stessi attraverso uno spostamento cognitivo interno che devia la preoccupazione delle proprie inadeguatezze personali o sociali (supportate dalla regolazione sociale che segnala accettazione e incoraggiamento del comportamento additivo) e l'opportunità per il "sogno ad occhi aperti" e fantasie di soddisfazione di desideri che, a turno, facilitano la percezione di sé alterata positivamente.
Anche se queste caratteristiche dello stato del giocatore possono essere considerate esperienze dissociative c'è ancora difficoltà nel capire se siano stati patologici o siano esperienze non-patologiche come quelle di assorbimento o emotivamente impegnative. Ad esempio il ridotto senso di tempo soggettivo è causato dall'allocazione delle risorse cognitive tra l'orologio interno e altre attività.
La dissociazione sembra essere una caratteristica di svariate attivi- tà e comportamenti relate alle dipendenze. In uno studio di Wood, Gupta, Derevensky e Griffiths (2004) è stato verificato che i giocatori problematici erano in adolescenza giocatori eccessivi di videogiochi ed essi riportavano di aver esperito diversi aspetti della dissociazione mentre compivano entrambe le attività. Da questo si potrebbe supporre che i giocatori problematici cerchino attività che diano un'esperienza dissociativa e/o che questi soggetti hanno più probabilità di esperire dissociazione dovuta a un'attività. Dato l'ampio raggio di attività associate alla dissociazione e il loro collegamento con la dipendenza sembra probabile che la dissociazione sia una parte fondamentale della dipendenza ma non è chiaro se sia una causa o un sintomo.
Comunque, considerando che solo alcuni dei giocatori problematici provano esperienze dissociative, si è arrivati alla conclusione che esso non sia una componente fondamentale nella motivazione del controllo compromesso dei giocatori. Con riferimento alla categorizzazione dei giocatori patologici di Blazczynski (2000), la dissociazione sarebbe una caratteristica importante solo per il secondo sottogruppo, quello dei giocatori di fuga, disturbati emotivamente, incapaci di esprimere le loro emozioni direttamente ed effettivamente tendenti a esprimere comportamenti evitanti o passivo-aggressivi. Per via di queste caratteristiche sarebbe più probabile che essi ricerchino esperienze dissociative come meccanismo di coping con i loro stati psicologici. Nel primo sottogruppo i meccanismi di dissociazione sarebbero conseguenze più che motiva- gioco mentre nel terzo gruppo, quello 
degli emotion-seekers, la ricerca
di emozioni impedirebbe loro di avere reazioni dissociative. Queste correlazioni, comunque, mancano di verifica allo
stato attuale della ricerca.
Sono state osservate similarità tra gioco e PTSD (Coocke, 2002), sia per i sintomi che per la comorbilità, con la differenza che nel caso dei giocatori la dissociazione sarebbe uno stato ricercato volontariamente per evadere dai propri problemi mentre per il PTSD lo stato viene esperito involontariamente per alleviare il trauma. La paralizzazione emotiva sarebbe esperita in entrambi i gruppi. Altre ricerche suggeriscono che la presenza di dissociazione sia significativamente correlata all'esperienza di sintomi di astinenza quando si tenta di fermare o rallentare il gioco (Rosenthal e Lesieu, 1992; Berg e Kulham, 1994).
La dissociazione, durante e dopo il gioco, potrebbe anche sorgere nel contesto delle circostanze altamente stressanti conosciute come "Bad Bet" (Rosenthal, 1995), cioè una perdita devastante che ricorre sotto circostanze improbabili o psicologicamente inaccetabili che possono essere significative come una iniziale "big win" per sviluppare il gioco problematico. La fenomenologia di tale fenomeno può essere divisa in tre fasi: reazione maniacale, realizzazione e riguadagno del controllo interno (Rosencrance, 1986). E' la prima fase in particolare ad essere caratterizzata da elementi dissociativi, personalizzazione e rabbia, attribuzione esterna e una cresciuta superstizione con perdita di controllo sul gioco che può variare di durata.
Anche se Jacobs (1986, 1989) aveva rilevato come gli individui dipendenti esperissero spesso stati dissociativi, questo non esclude che quelli non patologici non ne provino, come suggerito dalle scoperte di Diskin e Hodgins (1999), o che i livelli di dissociazione durante il gioco non differiscano tra i giocatori normali e patologici, come riscontrato, sempre da Diskin e Hodgins nel 2001, da Gup- ta e Derevensky (1999) e da Grant e Kim (2003). Stati dissociativi vengono inoltre riportati in altre attività, ad esempio quelle sporti- ve (Wanner, Ladouncer, Auclair e Vitaro, 2006). I giocatori patolo- gici, comunque, avvertono livelli più alti di dissociazione rispetto ai giocatori ricreazionali e agli sportivi i cui livelli non differiscono. La differenza tra dipendenti e non dipendenti sarebbe sulla loro motivazione a esperire questo stato o stati alternativi. Alternativamente alla dissociazione, gli individui possono esperire il "flow". Secondo la teoria di Kszsentmihaly e Kszentmihal (1988), il "flow" occorre quando il performatore è totalmente connesso alla performance ed esso rappresenta uno stato psicologico ottimale; quando è in questo stato, l'individuo esperisce un numero di caratteristiche esperienziali positive di cui il divertimento nell'attività rappresenta la caratteristica centrale. Sia i giocatori patologici che quelli per ricreazione esperiscono questo stato (Wanner et al. 2006). Dissociazione e "flow" hanno ruoli differenti rispetto alla regolazione delle emozioni e rappresentano stati psico- emotivi indipendenti e differenti (Wenner et al. 2006), ad esempio il divertimento nell'attività è indipendente dagli stati dissociativi. Le esperienze di "flow" sono spesso riscontrate in relazione a ridotto stress, a stati affettivi positivi (Hon, 1988; Hull, 1993; Massimini e Carli, 1988) e alti livelli di impegno e divertimento mentre non sono correlate con il benessere negativa, la fuga e l'impegno di popolarità mentre alti livelli di dissociazione correlano con un quadro opposto (Wanner et al. In 2006).
Cesare Guerreschi
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